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Le deleghe in assemblea

Capita sovente di non poter garantire la propria presenza all’assemblea di condominio e la possibilità di affidare a qualcuno il proprio volere decisionale è sicuramente un’opportunità per dare continuità al nostro interesse nel condominio e in come avviene la sua gestione.

Per semplicità abbiamo organizzato in un quadro riassuntivo gli aspetti fondamentali della delega.

  • la delega può essere affidata a qualunque soggetto di maggiore età che non sia dichiarato incapace;
  • la delega deve essere in forma scritta;
  • la delega può contenere sia la data nella quale essa risulta valida (in caso contrario potrebbe avere valore temporalmente indefinito), sia le volontà di voto, che risultano però di fatto non vincolanti: il delegato può in quanto tale esprimere preferenze personali;
  • la delega non può essere data all’amministratore del condominio;
  • il delegato non può rappresentare un valore complessivo superiore ad un quinto di quello totale e un numero di teste superiore ad un quinto del numero totale di condomini se quest’ultimo è superiore a 20.

Riguardo questo ultimo punto, la giurisprudenza dà una lettura variegata e discordante, difatti alcune sentenze nel merito sono per il tetto del quinto nel computo delle sole parti deleganti, mantenendo sia la caratura millesimale del delegato che la sua “testa” indipendente rispetto a quella di quest’ultimi. Questa interpretazione potrebbe essere sicuramente discutibile ma la sua adozione, vista la letteratura giurisprudenziale , potrebbe essere la scelta più conservativa.

Importante ricordare che per l’assemblea, inerentemente ad ogni aspetto viziato della delega (o delle deleghe) si determini conseguentemente un vizio di annullabilità (non di nullità) per la stessa.

Barbeque in condominio: come evitare le liti

L’utilizzo del barbecue per le classiche grigliate estive è un’usanza abbastanza comune ma è noto che normalmente, esso risulta sgradito e può essere talvolta dannoso per gli altri condomini le cui abitazioni vengono inevitabilmente invase da fumi e odori dei vicini.


Per evitare conflitti non resta che limitare le conseguenze dell’uso di tali apparecchi, tenendo conto che bisogna in ogni caso rispettare la normativa sulle immissioni, nonché le norme sulle distanze e le eventuali rigorose prescrizioni contenute nei regolamenti comunali e condominiali. L’ultima pronuncia, che configura addirittura un reato, è la sentenza 15246/2917, per la quale è consuetudine la presunzione assoluta di nocività o pericolosità, superabile solo con la adozione degli opportuni accorgimenti, ovviamente variabili in base alle situazioni concrete.
Il pericolo delle immissioni intollerabili
Come ha precisato il giudice di pace di Torino (con sentenza del 10/06/2010) i fumi e gli odori provenienti dal barbecue, vista la vicinanza e le immissioni che la cottura è in grado di sviluppare, sono idonee a provocare un sensibile disturbo e disagio in un’abitazione privata e contribuiscono a deprimervi la qualità della vita, rendendo quindi applicabile la fattispecie di cui all’art. 844 c.c..
Tale disposizione precisa, tra l’altro, che le immissioni di fumo provenienti dal fondo del vicino, non possano superare la normale tollerabilità.

In ogni caso se le immissioni sono insopportabili e frequenti il giudice può condannare il condomino proprietario del barbecue non solo all’adozione di misure idonee ad evitare immissioni sul fondo del vicino ma anche al ristoro dei pregiudizi non patrimoniali subiti dal danneggiato (e non solo se è sorto un danno biologico ma anche se vi è stata, ad esempio, la lesione del diritto alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza).
L’accertata esposizione ad immissioni intollerabili, però, non costituisce di per sé prova dell’esistenza di un danno alla salute, la cui risarcibilità è subordinata all’accertamento dell’effettiva esistenza di una lesione fisica o psichica.
Del resto, il danno derivante dalle immissioni di fumo, provenienti dal camino-barbecue del vicino, non dà diritto a ottenere il risarcimento del danno se di trascurabile entità.
Barbecue e regolamento di condominio
Prima di procedere alla grigliata è necessario leggere attentamente il regolamento di condominio che può contenere una norma di natura contrattuale (accettata da tutti i condomini nei rogiti) che vieta espressamente l’uso di barbecue o ne impedisce indirettamente l’uso, vietando la cottura di cibi negli spazi pertinenziali privati.
Se esistono tali disposizioni è irrilevante che le immissioni di fumo siano tollerabili: infatti le grigliate sono di fatto proibite (anche al conduttore) e ogni condomino può pretendere, anche giudizialmente, il rispetto del regolamento.
In ogni caso si deve tenere conto pure di quelle norme che stabiliscono modalità e orari per svolgere attività potenzialmente fastidiose o rumorose, come le feste organizzate intorno al barbecue.
Barbecue e rapporti di vicinato
Bisogna considerare che se un condomino utilizza un barbecue abusivo (realizzato senza permesso) consistente in una vera e propria fornace di notevoli dimensioni, con struttura portante in mattoni e cemento, chiusa da due lati, dal cui tetto spiovente in tegole si elevano dei comignoli, il vicino disturbato potrebbe interrompere le grigliate richiedendo la demolizione del manufatto illecito.
Infatti, la nozione di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica e non può consentire la costruzione di opere consistenti, in quanto l’impatto volumetrico incide in modo permanente e non precario sull’assetto edilizio e, conseguentemente, si rende necessario il rilascio di permesso di costruire.
Del resto tali strutture richiedono, se assentite, il rispetto delle distanze legali.
In ogni caso si deve tenere conto dell’articolo 890 c.c. che disciplina le distanze da osservare per la realizzazione di opere potenzialmente pericolose (Cass. 15246/17).
Tale norma prevede che, nel caso in cui si vogliano realizzare forni occorre osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza.
In particolare nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza minima, si prescinde da ogni accertamento concreto, trattandosi in questi casi di una presunzione di pericolosità assoluta;
In difetto di una disposizione regolamentare comunale, si ha invece una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino.
Se tale prova non viene fornita, sarà il giudice, di volta in volta, a stabilire (coadiuvato dai propri consulenti tecnici) quale sia la distanza minima da rispettare per evitare che le esalazioni nocive raggiungano i condomini vicini.

In sostanza prima di installare un barbecue e di utilizzarlo, magari sarebbe cortesia domandare a chi potenzialmente potrebbe subire le esalazioni, se questo da fastidio. Solitamente almeno che non facciate grigliate un giorno si ed uno no, questa precauzione può essere sufficiente per evitare una lite.

Rumori in condominio: definizioni e un esempio

La legge 447/95 introduce per la prima volta il concetto di inquinamento acustico, ma bisognerà attendere i DPCM del 14/11/97  per aver fissati i limiti assoluti e di attenzione, a seconda della zonizzazione del territorio (protetto, residenziale, misto, industriale, etc.) e differenziali, ovvero quanto può un rumore per essere considerato tale, superare il “fondo”. Inoltre con il DPCM del 5/12/97 si definiscono i requisiti acustici passivi in edilizia e i requisiti delle sorgenti, ovvero l’isolamento acustico minimo delle strutture, quali muri, divisori e aperture e i livelli di emissione delle sorgenti (il valore in dB che troviamo ad esempio, sull’etichetta della lavatrice o della lavastoviglie in negozio).
Detto questo per rumore si intende un emissione sonora che provoca fastidio, disagio e/o disturbo al riposo e l’esposizione prolungata ad emissioni rumorose può indurre un vero e proprio danno all’organismo (passeggero o cronico).
Anche se il “danno biologico” va rigorosamente dimostrato (Cassazione civile n. 661/2017), il risarcimento del danno non patrimoniale scatta anche senza prova dell’effettiva esistenza dei danni stessi: in questi termini si è espressa la Cassazione con la sentenza 1606/2017.

I casi più comuni in condominio sono il disturbo dovuto ad impianti sonori (TV o HiFi) in casa oppure elettrodomestici, impianti condominiali (pompe o scarichi) oppure all’uso di calzature a suola rigida (rumore da calpestio).

Vediamo ora un esempio reale:

Teatro della contesa, un cortile trevigiano: un fratello vi esercita attività di lavorazione del ferro; l’altro vi abita e ne subisce le immissioni, fin tanto che decide di rivolgersi al Tribunale, che gli dà ragione. Le immissioni superano di 3 dB il rumore di fondo, anche se solo in alcuni giorni ed orari: il Tribunale ordina la cessazione delle immissioni, l’inibizione all’uso di determinati macchinari e il risarcimento dei danni.
La Corte d’Appello di Venezia conferma la condanna. E si configura il reato di cui all’articolo 659 del Codice penale (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) e scatta quindi l’obbligo di risarcire il danno non patrimoniale, a norma dell’articolo 2059 del Codice civile.
La Corte di Cassazione, con sentenza 1606/2017, conferma i due precedenti gradi e fa chiarezza nella materia:
a) in tema di immissioni, i rapporti tra privati proprietari di fondi vicini vanno risolti sulla base dell’articolo 844 del Codice civile, anche se vi siano norme più permissive che disciplinino i rapporti con la pubblica amministrazione;
b) il limite di tollerabilità è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo e non può prescindere dalla rumorosità di fondo;
c) solo un esperto, scelto dal giudice, è in grado di accertare strumentalmente l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone, mentre i testimoni tendono ad esprimere giudizi valutativi di tipo soggettivo;

d) il danno non patrimoniale da immissioni illecite è risarcibile anche in assenza di un danno biologico documentato, «quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti».

Condominio blocca l’installazione di cabina elettrica nelle parti comuni

Un condominio ha presentato ricorso contro i provvedimenti amministrativi con i quali una Provincia aveva autorizzato una società di fornitura di energia a procedere alla ristrutturazione per aumento di potenza di una cabina elettrica posta all’interno del giardino, con contestuale dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori.

A seguito, infatti, di un cedimento del sedime stradale, si era verificato il cedimento del locale che ospitava la cabina che non poteva più essere mantenuta in tale loco.

Pertanto la società al fine di garantire la continuità del servizio elettrico, aveva provveduto nel frattempo ad installare una cabina provvisoria all’interno di un box prefabbricato, ubicandola sulla via pubblica, su un’area antistante il giardino di proprietà del Condominio.

Di fronte al successivo diniego opposto dal Condominio di concedere nuovamente in locazione il locale dove era precedentemente ubicata la cabina, chiedeva l’esproprio dello stesso alla Provincia che emetteva i provvedimenti necessari a tal fine.

Il Condominio, quindi, ha impugnato tali atti ritenendoli illegittimi in quanto, per quanto qui interessa, l’Amministrazione non aveva valutato le conseguenze potenzialmente negative per i condomini, derivanti dalla propagazione delle onde elettromagnetiche sviluppate dalla cabina elettrica.

Principio di precauzione. Nel nostro ordinamento ha trovato ingesso il c.d. principio di precauzione, “in forza del quale per ogni attività che comporti pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione” (Cons. Stato , sez.

V, sentenza 27 dicembre 2013, n. 6250) Pertanto, è necessario intervenire in presenza di indizi specifici i quali, senza escludere l’incertezza scientifica, permettano ragionevolmente di concludere, sulla base dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare pregiudizi all’ambiente o alla salute; si rifiuta un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente.

La situazione di pericolo, quindi, deve essere potenziale o latente, ma non meramente ipotizzata e deve incidere significativamente sull’ambiente e la salute dell’uomo.

Infatti, “il diritto alla salute, posto a base della domanda, è infatti un diritto fondamentale dell’individuo, che l’articolo 32 Costituzione protegge direttamente (Corte costituzionale 26 luglio 1979 n. 88; 14 luglio 1986 n. 184; 18 dicembre 1987 n. 559; 27 ottobre 1988 n. 992; 22 giugno 1990 n. 307; 18 aprile 1996 n. 118).Questo equivale a dire che il diritto alla salute deve prima essere esposto a compromissione e poi può trovare tutela, ma solo in forma repressiva, mediante condanna al risarcimento del danno, anche in forma specifica. Si è visto invece che la tutela può essere preventiva e sostanziarsi in una inibitoria.

Perciò, il giudice di merito non avrebbe potuto rifiutarsi di accertare se il diritto alla salute di quanti si fossero trovati ad abitare sul fondo dell’attore sarebbe risultato esposto al pericolo di rimanere compromesso dall’esposizione ai campi elettromagnetici generati dall’elettrodotto, una volta che fosse entrato in funzione e per come ne era preventivato l’esercizio” (Cass. civ.., sez. III , sent. 27 luglio 2000, n. 9893)

Giurisprudenza in tema di elettromagnetismo. La sentenza in esame richiama varie pronunce a sostegno della propria decisione.

In particolare osserva come “in applicazione dell’art. 121, terzo comma, del TU 11 dicembre 1933 n. 1775″, per il quale ” l’impianto di condutture elettriche deve essere eseguito in modo da riuscire il meno pregiudizievole possibile al fondo servente, l’attraversamento di fondi privati di un elettrodotto esige, da parte della pubblica Amministrazione un’adeguata comparazione con la possibilità di tracciato diverso in relazione allo stato dei terreni vicini; pertanto è illegittimo il provvedimento di approvazione di un nuovo tracciato che non sia stato preceduto da tale doverosa attività comparativa” (Cons. Stato, sez, IV, sent. 28 febbraio 1986, n. 126).

E più di recente che “il TAR Liguria, (sentenza 7.6.01 n. 665), ha affermato: ” è illegittimo il provvedimento di concessione edilizia per l’installazione di una cabina elettrica di media trasformazione, a servizio di appartamenti, negozi ed uffici già realizzati di un piano particolareggiato, in un’area destinata a verde pubblico, ove il provvedimento che ha accertato la conformità dell’opera, non abbia dato conto delle ragioni della diversa ubicazione della cabina dalla sede originariamente indicata, nonché della scelta di ubicare un manufatto potenzialmente pericoloso sotto il profilo elettromagnetico in un giardino pubblico“.

La violazione dell’art. 121 del RD n. 1775/1933. Nel caso in esame il T.A.R. adito ha ritenuto che vi fosse stata violazione dell’art. 121 del RD n. 1775/1933 che così dispone: “la servitù di elettrodotto conferisce all’utente la facoltà di: a) collocare ed usare condutture sotterranee od appoggi per conduttori aerei e far passare conduttori elettrici su terreni privati e su vie e piazze pubbliche, ed impiantare ivi le cabine di trasformazione o di manovra necessarie all’esercizio delle conduttore; b) infiggere supporti o ancoraggi per conduttori aerei all’esterno dei muri o facciate delle case rivolte verso le vie e piazze pubbliche, a condizione che vi si acceda dall’esterno e che i lavori siano eseguiti con tutte le precauzioni necessarie sia per garantire la sicurezza e l’incolumità, sia per arrecare il minimo disturbo agli abitanti.

Da tale servitù sono esenti le case, salvo le facciate verso le vie e piazze pubbliche, i cortili, i giardini, i frutteti e le aie delle case attinenti;? “.

La norma citata esclude la possibilità di installazione coattiva di cabine elettriche nelle case, cortili, giardini e, pertanto, non era consentito imporre la servitù coattiva di elettrodotto nel giardino di pertinenza del Condominio ricorrente.

Inoltre, il comma 3 dello stesso art. 121 del R.D. sopra menzionato prevede che “l’impianto e l’esercizio di condutture elettriche debbono essere eseguiti in modo da rispettare le esigenze e l’estetica delle vie e piazze pubbliche e da riuscire il meno pregiudizievole possibile al fondo servente, avuto anche riguardo all’esistenza di altri utenti di analoga servitù sul medesimo fondo, nonché alle condizioni dei fondi vicini e all’importanza dell’impianto stesso“.

La violazione del principio di precauzione. Il T.A.R., inoltre, ha ritenuto che Inoltre, i provvedimenti impugnati erano viziati anche per violazione del DPCM 18/7/03 e del principio di precauzione.

Infatti, dalla lettura degli atti del procedimento emerge che le Amministrazioni deputate all’approvazione del progetto non hanno adeguatamente valutato le conseguenze potenzialmente negative per i condomini, derivanti dalla propagazione delle onde elettromagnetiche sviluppate dalla cabina elettrica. Infatti, tale valutazione doveva essere effettuata ex ante e non ex post“.

La pericolosità del sito. L’espropriazione finalizzata alla collocazione della cabina “illegittima per illogicità e irragionevolezza sotto un ulteriore profilo visto che, dalla documentazione acquisita agli atti del procedimento, risulta che l’area ove è stato autorizzato il posizionamento della cabina elettrica presenta dissesti riconducibili a cedimenti degli strati superficiali del terreno”.

Circostanze note alla società di energia elettrica che “per tali ragioni, ha dovuto spostare la cabina elettrica inizialmente ubicata all’interno dello stabile condominiale perché si era notevolmente abbassata per il cedimento del terreno sottostante”; società che si era limitata “a replicare alle “osservazioni” presentate dal Condominio affermando che “per quanto riguarda la staticità del luogo individuato verranno adottate le medesime fondazioni utilizzate per la realizzazione dell’immobile di proprietà del condominio e, comunque, tutte quelle necessarie a garantire la staticità della cabina”, senza, peraltro, presentare un progetto specifico sul punto”.

Conclusioni. Alla luce di quanto precede, il T.A.R. ha dichiarato illegittimità degli atti dell’Amministrazione. Tale pronuncia ha, quindi, ritenuto che il valore primario da valutare è il diritto alla salute delle persone, al di là di ogni altro interesse.

Fonte http://www.condominioweb.com/no-alla-cabina-elettrica-in-condominio-se-non-si-sono-verificate-le-radiazioni.2111#ixzz4MHu7lhip

Mediazione: non ha luogo senza la presenza delle parti

Non è sufficiente la presenza dell’avvocato per la mediazione, obbligatoria per il contenzioso a livello di condominio, devono infatti presenziare anche le parti personalmente,  come stabilito dal Tribunale di Modena con ordinanza del 2 maggio 2016.

Qualora una delle parti (o entrambe) decidessero di non partecipare agli incontri, si darebbe luogo ad un altro iter per soluzione dei conflitti, che può sì, raggiungere il fine preposto, ma non certo può essere definito mediazione (Tribunale di Firenze, ord. del 19 marzo 2014).

L’istituto della mediazione ha in sostanza lo scopo di reinstaurare la comunicazione tra i litiganti e renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente una interazione mediata tra le parti.

Nell’ottica di garantire lo svolgimento della mediazione e stando a quanto indicato nell’art. 8, comma 1 d. lgs n. 28/2010 (modificato dall’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013), sia al primo che agli incontri successivi, devono partecipare le parti personalmente assistite da un difensore, non essendo sufficiente che compaia unicamente quest’ultimo, nella veste di delegato della parte (Trib. Bologna 5 giugno 2014).

Laddove non tutte le parti si dovessero presentare, pena la pronuncia di improcedibilità della domanda non ritenendosi espletata la procedura compositiva e di conseguenza assolta la condizione di procedibilità, sarà onere del mediatore aggiornare l’incontro invitando le parti a comparire personalmente (questo principio è stato espresso dai Tribunali di Vasto il 9 marzo 2015 e di Pavia il 9 marzo 2015),

Determina poi, l’improcedibilità della domanda l’incontro meramente cartaceo, ovvero, quello ipotizzabile in presenza di missive, telegrammi o fax inviati dalle parti (renitenti alla comparizione personale) direttamente al mediatore o alla sede dell’organismo (Tribunale di Roma, 29 settembre 2014).

Non bisogna dimenticare, inoltre, che la mediazione obbligatoria è improcedibile anche se manca l’assistenza di un avvocato ( Tribunale di Torino, sentenza del 30 marzo 2016).

In particolare nell’ambito condominiale il condominio deve essere rappresentato dall’amministratore il quale dovrà convocare l’assemblea per ottenere la legittimazione a partecipare nonché per la nomina di un legale che rappresenti l’ente di gestione (articolo 71-quater delle disp. att. codice civile).

Nel caso in cui l’amministratore non dovesse informare il condominio dell’istanza di mediazione o non dovesse presenziare all’incontro e non dare attuazione al deliberato, può essere revocato giudizialmente in base all’articolo 1129, comma 12, n. 2 del Codice civile e tenuto al risarcimento del danno, eventualmente subito o che verrà subito, del condominio.

L’eventuale distacco non esonera dai costi di mantenimento

Un condomino si era distaccato dopo aver informato l’assemblea e presentato la relazione di un tecnico  che attestava l’assenza di conseguenze pregiudizievoli conseguenti al distacco stesso.
Il condomino ritenendo di aver adempiuto ai propri obblighi e di essersi legittimamene distaccato, non consentiva, ai tecnici, di installare i ripartitori per la contabilizzazione.
Il condomino, una volta appurato che anch’egli subiva i costi di mantenimento dell’impianto, adiva il tribunale affinché venisse accertata la legittimità del distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato con conseguente annullamento della delibere nelle quali gli si attribuivano i menzionati costi.
In base all’articolo 1118, ultimo comma del codice civile novellato dalla legge 220/2012, il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.
Il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma, stante l’inderogabilità, ex articolo 1138 ultimo comma, codice civile, della disposizione di cui all’articolo 1118, secondo comma, codice civile, la quale stabilisce che il diritto sulle parti comuni è irrinunciabile e non è possibile sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la loro conservazione (articolo 1118, terzo comma, codice civile) .
Tale legittima rinuncia non è però consentita in presenza di un divieto esplicito in un regolamento di condominio di natura contrattuale, il quale se non può consentire la rinuncia all’uso dell’impianto centralizzato di riscaldamento, laddove sia mirato all’esonero dall’obbligo del contributo per le spese di conservazione e manutenzione di detto impianto, ben può invece vietare la rinuncia all’uso ossia al distacco del proprio impianto da quello centralizzato (Cassazione, sentenza n. 6923/2001).
Viene confermato, quindi, l’obbligo al pagamento delle spese per il riscaldamento e per i contabilizzatori.

È nullo il regolamento condominiale che vieta di tenere gli animali domestici in condominio

Non si può impedire ai condomini di tenere animali domestici, anche se tale divieto è previsto nel regolamento condominiale approvato all’unanimità.

E’ quanto stabilito dalla Seconda Sezione Civile del Tribunale Ordinario di Cagliari, con l’ordinanza del 22 luglio 2016. La vicenda in esame riguardava un condomino che aveva proposto ricorso ex art. 702 c.p.c. affinchè venisse dichiarato nullo e/o annullato e/o comunque dichiarato privo di efficacia, l’art. 7 del regolamento condominiale, che vietava l’accesso al Condominio agli animali domestici. Si costituiva in giudizio il Condominio, sostenendo la legittimità del divieto stabilito nel regolamento.

Il Tribunale adìto ha ritenuto viziata da nullità sopravvenuta la disposizione di cui all’art. 7 del regolamento del condominio  impugnato in quanto, con la L. n. 220/2012, è stato introdotto il principio secondo cui: “le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici”, applicabile a tutte le disposizioni contenute sia nei regolamenti di tipo contrattuale che assembleare, precedenti o successivi alla riforma del 2012.

Inoltre, il regolamento condominiale che si discosti da tale disposizione è affetto da nullità anche perché contrario ai principi di ordine pubblico, individuabili nella necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale e nell’affermazione di quest’ultimo principio anche a livello europeo. Tali concetti sono contemplati in particolare, nella Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13.11.1987, ratificata ed eseguita in Italia con la Legge 201/2010, nonchè nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ratificato dalla Legge 130/2008, che all’articolo 13, prevede che l’Unione e gli Stati membri “tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”.

Secondo le prime interpretazioni, occorreva che il divieto di accesso  e mantenimento degli animali domestici negli appartamenti fosse previsto nel regolamento condominiale votato all’unanimità dei condomini, in quanto andava ad incidere e limitare, facoltà comprese nel diritto di proprietà dei singoli, ovvero, in caso di regolamenti predisposti dall’originario unico proprietario, che fossero richiamati negli atti di acquisto, costituendosi con essi servitù reciproche.

In realtà, argomenta il giudice, occorre considerare un’altra interpretazione della norma, poiché il divieto indicato nell’art. 1138 c.c. rappresenta l’espressione dei principi di ordine pubblico, dalla cui violazione consegue la nullità insanabile della statuizione ad esso contraria. In effetti, le disposizioni contenute nei commi precedenti dell’art. 1138 c.c. stabiliscono regole circa l’adozione obbligatoria del regolamento ed al quorum necessario per la sua approvazione, facendo riferimento al c.d. regolamento assembleare, tuttavia, nessuna indicazione in merito alla natura del regolamento è indicata nella norma, in cui si parla genericamente di “regolamento di condominio”, e neppure nel comma contenente il divieto, in cui viene citato il “regolamento” senza altra specificazione. Dall’esame dell’art. 1138 c.c. e della norma contenente il divieto, non è possibile individuare a quale tipo di regolamento si faccia riferimento, per cui appare riduttivo applicare tale divieto al solo regolamento di tipo c.d. assembleare, ma va estesa a tutti i regolamenti di condominio, anche se approvati all’unanimità.

Pertanto, il Tribunale ha concluso sostenendo che la norma in esame non è strettamente connessa alle sole ipotesi di regolamento assembleare, ma costituisce un principio generale, valido per qualsiasi regolamento, per cui ha accolto la domanda proposta, dichiarando nullo l’art. 7 del regolamento del condominio.

In mancanza di accordo il posto auto nel cortile condominiale lo assegna il giudice

Sovente accade che tra i condòmini non vi sia accordo in merito all’uso della cosa comune e che, pertanto, l’assemblea non riesca a deliberare in merito.

Ciò accade in particolar modo quando si tratta di assegnare, ai singoli condòmini, i rispettivi posti auto nel cortile comune.

In questi casi ben può farsi ricorso all’autorità giudiziaria, affinché la stessa provveda d’ufficio all’assegnazione del posto auto di pertinenza dei singoli condòmini.

Innanzitutto, per quanto riguarda la competenza per tale genere di giudizi, è doveroso premettere come: “Le cause relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi del condominio, di competenza del giudice di pace, sono sia quelle che riguardano le riduzioni o limitazioni quantitative del diritto di godimento dei singoli condomini sulle cose comuni sia quelle che concernono i limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione, in proporzione delle rispettive quote, mentre sono assoggettate alle ordinarie regole della competenza per valore quelle aventi ad oggetto la contestazione della titolarità del diritto di comproprietà sulle cose comuni” (Cass. civ. Sez. II Ord., 18/02/2008, n. 3937).

Con l’ulteriore specificazione che: “In tema di condominio, qualora venga impugnata una delibera assembleare, il riparto di competenza deve avvenire in base al principio contenutistico, ossia con riguardo al tema specifico del deliberato assembleare di cui l’attore si duole; ne consegue che è devoluta alla competenza per materia del giudice di pace – in quanto attinente alle modalità di uso dei servizi condominiali, ai sensi dell’art. 7, quarto comma, n. 2), cod. proc. civ. – la controversia relativa alle modalità di custodia della chiave di accesso al lastrico solare, a nulla rilevando che l’attore abbia dedotto come fondamentale motivo di censura la mancata inclusione di tale oggetto nell’ordine del giorno dell’assemblea condominiale” (Cass. civ. Sez. VI Ordinanza, 28/03/2011, n. 7074).

Viceversa, quando la limitazione dell’esercizio del diritto del condomino non riguarda le parti comuni bensì la sua proprietà esclusiva, è il caso in cui una clausola del regolamento condominiale ne limita appunto l’utilizzo da parte del condomino/proprietario, non si può ritenere che tale giudizio rientra tra le cause relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio, di competenza del giudice di pace, proprio perché la controversia non attiene più alle parti comuni, di talché competente per materia sarà il Tribunale (Cfr.: Cass. civ. Sez. II, 31/10/2014, n. 23297).

Fatta questa doverosa premessa, passiamo all’esame della recente sentenza della Suprema Corte, n. 23118, emessa in data 12/11/2015.

Posta la presenza di un cortile comune adiacente il fabbricato di proprietà, uno dei comunisti evocava in giudizio l’altro, al fine di sentenziare lo scioglimento della predetta comunione ovvero, nel caso di impossibilità, l’individuazione e l’assegnazione all’interno dell’area comune di un posto-auto per ciascuna parte.

Sulla scorta della dedotta indivisibilità del bene il Tribunale, a seguito di Consulenza Tecnica d’Ufficio, provvedeva all’assegnazione dei posti-auto ad ognuno dei comunisti. Sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Genova.

Proponeva ricorso per cassazione il comunista convenuto in primo grado eccependo, tra l’altro, la circostanza per la quale, con l’assegnazione giudiziale del posto-auto nel cortile condominiale avrebbe costituito un “nuovo diritto reale”, al di fuori di quelli tipici riconosciuti dal nostro ordinamento civilistico, oltre a pregiudicare l’utilizzo della cosa comune in tutta la sua estensione, in danno dei singoli condòmini, con violazione dell’art. 1102 c.c.

La Corte di Cassazione, con la predetta sentenza, ribadisce il proprio orientamento per il quale: “l’assegnazione dei posti-auto nel cortile comune costituisce manifestazione del potere di regolamentazione dell’uso della cosa comune, consentito all’assemblea del condominio” (Sez. 2, Sentenza n. 12485 del 19/07/2012).

Né può ritenersi effettivamente sussistente la creazione di una nuova fattispecie di diritto reale, considerato che: “né tale regolamentazione con relativa assegnazione di singoli posti-auto ai vari condomini determina la divisione del bene comune o la nascita di una nuova figura di diritto reale, limitandosi solo a renderne più ordinato e razionale l’uso paritario della cosa comune” (Sez. 2, Sentenza n. 6573 del 31/03/2015).

Ciò posto, l’assegnazione del posto-auto insistente nel cortile condominiale, attiene esclusivamente all’utilizzo dello stesso, disciplinandone l’uso, senza che possano emergere nuovi modi di acquisto della proprietà ovvero di altri diritti reali (enfiteusi, diritto di superficie, usufrutto, uso o di abitazione e servitù).

Di talché, deve valere il principio per cui, in mancanza di accordo tra condòmini ovvero nell’impossibilità di decidere nel merito oppure quando l’assemblea non sia stata neppure costituita, la regolamentazione dell’uso della cosa comune e, in particolare, l’assegnazione dei posti-auto sul bene comune, può essere richiesta e dichiarata dall’autorità giudiziaria (Cfr.: Cass. civ., Sez. II, 12/11/2015, n. 23118. Nello stesso senso in precedenza: Cass. civ. Sez. II Ord., 18/02/2008, n. 3937).

Fonte http://www.condominioweb.com/assegnazione-posto-auto-condominiale.12251#ixzz4KKgH56uF